martedì 31 agosto 2010

Tutti a Cetara per la famosa colatura di alici

















Questa volta la nostra "meta didattica" è stata Cetara. Questo piccolo borgo della Costiera Amalfitana, oltre ad essere famoso per le sue bellezze paesagistiche, è il luogo natio della colatura di alici.
La colatura di alici che viene prodotta a Cetara è un liquido ambrato ottenuto seguendo un antico procedimento che i pescatori del luogo si sono tramandati di padre in figlio. Si parte dalla tecnica di lavorazione delle alici sotto sale, di cui la colatura è un derivato: le alici appena pescate, in tutto il periodo primaverile e di inizio estate, vengono private della testa e delle interiora e poi adagiate in un contenitore, cosparse di sale marino abbondante. Dopo la prima salatura, vengono messe in una piccola botte, il terzigno, e sistemate con la classica tecnica ‘’testa-coda’’ a strati alterni di sale. Completato il lavoro, il terzigno viene coperto con un disco in legno, sul quale si collocano dei pesi.
Successivamente, colando lentamente attraverso i vari strati dei pesci, il liquido raccoglie il meglio delle caratteristiche organolettiche. Viene recuperato attraverso un foro praticato appositamente nel terzigno, trasferito in un altro recipiente. Il risultato finale è un distillato limpido di colore ambrato carico, quasi bruno-mogano, dal sapore deciso e corposo che a Cetara è il tradizionale condimento per gli spaghetti delle vigilie, oltre che per le bruschette, i broccoli di Natale e altre verdure: tradizionalmente considerato un cibo povero, sostitutivo del pesce fresco, oggi è un condimento ricercatissimo e apprezzato a tutti i livelli.

venerdì 27 agosto 2010

A far Mozzarelle...

















Ecco alcune foto dell'ultima visita didattica fatta presso un locale caseificio artigianale. Alcuni corsisti si sono anche improvvisati aspiranti casari...
La lavorazione del latte in Penisola Sorrentina è molto radicata, pertanto non poteva mancare una breve 'esplorazione' anche in questo comparto.

venerdì 20 agosto 2010

La storia in breve dei nostri agrumi


Nei primi anni del 1900 l'agrumicoltura sorrentina riusciva a garantire ottimi redditi. Ma i metodi di coltivazione troppo intensivi, inframmezzando agli agrumi altri tipi di coltivazioni, procurarono in breve tempo un calo di produttività".
Nell'aranceto, infatti, le piante erano situate a distanza inferiore di quattro metri l'una dall'altra e spesso tra i filari serpeggiavano viti, olivi secolari e svariati alberi da frutto come noci, ciliegi e sorbi. Le prime trasformazioni dell'aranceto arrivarono nel 1922 con i cosiddetti terrazzamenti.
Furono spostati a mano migliaia di metri cubi di terreno e gli appezzamenti, le cosiddette "pezze", furono delineate con massicce mura di pietra di tufo grigio locale, una vera e propria opera d'arte per l'epoca e, ancora oggi, sono in un perfetto stato di conservazione a testimonianza dell'eccellente lavoro fatto in quegli anni dai "mastri" del Piano di Sorrento.
Da lì poi si ritenne opportuno specializzare sempre più i contadini della Penisola e così il "fondo Cavoniello" divenne la prima sede della Costiera per i corsi di Istruzione Professionale dei Contadini.
Gli allievi imparavano sul campo le tecniche di base per la concimazione, la potatura e la slupatura degli agrumi. I corsi venivano svolti dalla Cattedra Ambulante di Agricoltura che cominciò anche a sperimentare nuove tecniche d'impianto per risolvere così il problema dell'impoverimento qualitativo dell'arancio.
Grazie al professore Di Pinto della Facoltà di Agraria di Portici fu completamente ridisegnato l'intero piantato di aranci, limoni, mandarini e pompelmi. Così olivi, noci e viti lasciarono spazio ad un nuovo arancio, il "Palermo", il cui frutto è oggi il fiore all'occhiello dell'aranceto sorrentino.
Numerosi i riconoscimenti di medaglie d'oro e di argento a partire dal 1931 e in questo fondo i giovani potevano apprendere le tecniche produttive e i segreti della potatura.

Pizza napoletana Stg




La pizza napoletana è entrata fra le eccellenze alimentari europee, ottenendo il nuovo marchio di "Specialità Tradizionale Garantita" (Stg), che tutela la provenienza e la ricetta di questa antica specialità culinaria di Napoli, riportata in numerosi documenti storici e testi letterari come una delle più grandi invenzioni della cucina napoletana.
La "Pizza Napoletana" compare tra il 1715 ed il 1725, quando Vincenzo Corrado, cuoco del Principe Emanuele di Francavilla, in un trattato sui cibi più utilizzati a Napoli, dichiara che il pomodoro viene impiegato per condire la pizza e i maccheroni. A ciò si riconduce la comparsa ufficiale della "pizza napoletana", un disco di pasta condito con il pomodoro, così riportata negli stessi Dizionari della Lingua italiana e nell'Enciclopedia Treccani.
Le prime pizzerie, senza dubbio, sono nate a Napoli e fino a metà del '900 il prodotto era un'esclusiva di Napoli e delle Pizzerie. Fin dal 1700 erano attive nella città diverse botteghe, denominate "pizzerie", la cui fama era arrivata sino al re di Napoli, Ferdinando di Borbone, che per provare questo piatto tipico della tradizione napoletana, violò l'etichetta di corte, entrando in una rinomata pizzeria, che da quel momento si trasformò in un locale alla moda, deputato alla esclusiva preparazione della "pizza".
Le molteplici imitazioni dei prodotti Made in Italy, a cui neanche la pizza si sottrae, non sono soltanto il frutto di varianti culinarie ma, spesso, sfociano nella preoccupante realizzazione e denominazione di un prodotto, che assai poco si riesce a collegare con quanto è stato tramandato nei secoli nella città di Napoli.
La pizza, secondo quanto stabilito dal decreto ministeriale del 18 luglio 2000, è un "prodotto tradizionale" in quanto "le metodiche di lavorazione, conservazione e stagionatura risultino consolidate nel tempo, omogenee per tutto il territorio interessato, secondo regole tradizionali, per un periodo non inferiore ai venticinque anni". Già nel 1998, l'Ente di normazione italiano (Uni), con la norma Uni 10791:98 "Verace pizza napoletana artigianale - Definizione, materie prime, requisiti", stabilì le peculiarità di questo prodotto alimentare preparato con materie prime ben definite, seguendo uno specifico processo di produzione, costituito da un supporto di pasta lievitata, condito, sostanzialmente, con olio e pomodoro e che comprende due tipi: la "marinara" e la "margherita", differenti tra loro per qualità e quantità degli ingredienti impiegati per guarnirle.
La norma descrive le materie prime da impiegare: (farina di grano tenero "tipo 00", acqua, lievito di birra fresco e sale marino) per la preparazione dell'impasto, definendo i dettagli, i tempi, le temperature di lievitazione e le caratteristiche che l'impasto deve assumere, nonché le modalità di lavorazione del panetto lievitato per ottenere il classico disco con l'ispessimento periferico, il cosiddetto "cornicione".
Altro significativo elemento di tradizionalità è la specifica qualità, la sequenza degli ingredienti e la omogeneità della loro distribuzione nella guarnizione, oltre alle modalità di cottura, che deve avvenire in una particolare zona del forno, rigorosamente a legna, ad una determinata temperatura e per un certo tempo.
L'ultima parte della norma, esclusivamente di applicazione volontaria, è dedicata ai metodi di analisi e di controllo dei requisiti delle materie prime impiegate.
Dal 4 febbraio 2010, a tutela di questo prodotto, difendendone denominazione ed originalità, c'è il Reg. (Ue) n. 97/2010 della Commissione Europea che reca la registrazione nelle specialità tradizionali garantite della denominazione "Pizza Napoletana Stg".
Tale marchio potrà essere utilizzato solo da coloro che si atterranno strettamente al disciplinare di produzione, in cui sono indicate le caratteristiche che questo prodotto deve avere.

Visita Didattica alla Cantina De Angelis di Sorrento











L'azienda vitivinicola De Angelis è tra le più antiche della penisola sorrentina.
Avendo una superficie molto piccola rispetto alle bottiglie prodotte, vengono acquistate uve per circa il 98%, ma la qualità è di tutto rispetto, segno di una attenzione costante alle uve ed alla loro scrupolosa vinificazione.
I proprietari, i fratelli Aniello e Gioacchino de Angelis, producono nella loro cantina i seguenti vini:
Lacryma Christi Bianco Doc
Lacryma Christi del Vesuvio Rosso Doc
Lacryma Christi del Vesuvio Rosato Doc
Nero del Tasso Aglianico Beneventano Igt
Falanghina Pompeiano Igt
Penisola Sorrentina Rosso Doc
Penisola Sorrentina Bianco Doc.
Durante la visita, il signor Aniello ha spiegato dettagliatamente le moderne tecniche di produzione e si è soffermato inoltre sui vitigni autoctoni e sulle relative caratteristiche. Per concludere, è stata realizzata anche una degustazione guidata.

Tutti i partecipanti rivolgono un sentito ringraziamento ai fratelli De Angelis.

I pergolati sorrentini












Per la costruzione del pergolato (prevola) si usano i pali di castagno (lieveni o levene) e ricordiamo che la maggior parte dei castagneti della Penisola Sorrentina sono cedui e sono utilizzati per produrre pali e pertanto vengono tagliati dopo un periodo di 12-15 anni. I più grossi e diritti (‘mpieri, ma anche allirti) sono piantati in terra, secondo una griglia a maglia quadrata di 2,80 metri di lato, per una profondità di circa un metro lasciando all’esterno 5/6 metri. Oltre un metro più in basso delle cime dei pali si crea una griglia di pali un po’ più sottili che portano nomi diversi a seconda della loro posizione: i currienti reggono i cavalli e con essi formano i quadrati che hanno i vertici negli allirti; sempre perpendicolarmente ai currienti e poggiati su di essi, fra i cavalli, si stendono le curreje che quindi dividono i quadrati a metà formando dei rettangoli. Fra currienti e curreje si stendevano quindi le pagliarelle. Per evitare sbandamenti e per dare maggiore solidità a tutta la struttura del pergolato si aggiungevano delle diagonali poze (con la o chiusa), utilizzando per ciascuna di esse due o tre lieveni scelti fra quelli più storti e irregolari. Infine si creava un altro livello di currienti più o meno a metà dell’altezza dei ritti.

Currienti, curreje e cavalli, per essere accoppiati alle estremità e dare quindi continuità alla struttura, dovevano essere assottigliati alla base. Questa operazione si chiamava spalettatura e si effettuava con un’ascia a forma di zappa dopo aver bloccato il palo, posto in diagonale, contro una base di legno. Le parti tagliate si chiamavano tacche. Tutti i fissaggi venivano effettuati a mano senza uso di chiodi, ma solo con legature di filo di ferro da 1 mm. Questo si comprava in matasse e poi veniva trasferito su bastoncini di legno (mazzarielli, ovviamente di castagno) utilizzati anche come leva per ottenere una legatura stretta. Il trasferimento dalla matassa al mazzariello avveniva con l’ausilio di un apposito congegno detta molto genericamente machinetta. Per essere fissato il mazzariello aveva una delle due estremità quadrata.

Nel limoneto tradizionale al centro di ogni quadrato, quindi fra quattro ‘mpieri, c’era un albero circondato da una piazzola circolare ribassata (fonte), ciò per trattenere l’acqua quando non si irrigava ancora con i moderni metodi. Infatti, se oggi si usano gli impianti a goccia o altri sistemi simili, un tempo si scavavano (con la zappa) dei canali che correvano lungo i poggetti che separavano le fonti e quindi, aprendo la vasca di raccolta acqua che si trovava nella parte più alta dell’agrumeto, si riempivano le fonti una per volta deviando il flusso dell’acqua chiudendo un canale e aprendo il successivo più a valle. Per questo motivo l’agrumeto classico doveva essere terrazzato e le terrazze avevano una leggera pendenza verso valle.

Le pagliarelle cui abbiamo accennato prima sono degli “scudi” di paglia tenuta insieme da listelli di legno. Hanno una dimensione prestabilita (200x120cm), ovviamente compatibile con le dimensioni del pergolato. La costruzione delle pagliarelle era, ed è tuttora, completamente manuale e richiedeva una certa abilità. Si procedeva in questo modo: si preparava un telaio rettangolare (telariello) di listelli di castagno tagliati longitudinalmente a metà (chierchie): i quattro lunghi (perecuni) erano ricavati dalla parte più spessa e robusta e i quattro corti (traverse) da quelle con qualche irregolarità. Le traverse venivano inchiodate sui perecuni, entrambi con la parte curva all’esterno. Il telariello veniva poi poggiato su una specie di tavolo, fatto di assi di legno montate su due cavalletti, e sopra vi si stendevano due strati di paglia di grano, uno opposto all’altro, nel senso delle traverse. Quindi si fermava la paglia con altri quattro listelli di castagno (cimme), più sottili dei pereconi, inchiodati su questi ultimi faccia contro faccia in modo da lasciare all’esterno tutte le parti curve. Per questa ultima operazione si usavano chiodi un po’ più lunghi che, dopo aver attraversato i tre listelli sporgevano di vari millimetri dall’altro lato, quindi si girava la pagliarella e si ribattevano le punte in modo da fissare definitivamente il tutto e non creare pericoli.

Con una piccola accetta o con delle apposite lunghe lame (curtielli) si tagliava la paglia in eccesso in modo da ottenere un bordo diritto, sporgente solo di pochi centimetri dal telaio; attualmente è più comune usare delle grosse cesoie. Per completare la pagliarella si dovevano tagliare le parti sporgenti delle cimme (effettivamente le cime delle chierchie). Infatti questi erano i soli listelli non tagliati a misura essendo la parte che restava della chierchia intera dopo aver tagliato gli altri pezzi. Per questa ragione di solito eccedevano la misura della pagliarella e la parte sporgente veniva stroncata con il serracchio (saracco).